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MELVINS
Roma, Circolo degli Artisti - 04/10/2011


I Melvins sono mostruosi. Tanto a vederli, quanto nella proposta musicale. Le loro facce sono ispide, irsute, asimmetriche. Cesare Lombroso, antropologo e studioso di come la fisionomia interviene sul carattere dell'individuo, ne avrebbe scritto di criminali incalliti senza possibilità di redenzione. E forse avrebbe avuto ragione.
Sold out per la serata al Circolo degli Artisti di Roma. Segno che la più influente band degli anni Novanta, attiva dal 1982 e chiara influenza per artisti come Kurt Cobain, ha un appeal ancora molto alto. Il pubblico è ampio ed eteregeneo: metal-heads lungocriniti, proto punkers borchiati, doomsters dall'aspetto mefitico, bikers muscolosi ed esili noisy kid sono lì a dimostrare che il vero crossover del terzo millennio viene servito proprio stasera. Da notare che una bella fetta di attempati signori segue il concerto dalle retrovie, altro segno di come i Melvins siano ancora in grado di incuriosire anche i fan della prima ora, data una lunga serie di dischi sempre fedele a se stessi e, al contempo, sempre diversi. La recente line up vede due batterie (Coady Willis per coadiuvare quel pazzo furioso che è Dale Crover), voce e chitarra (Buzz Osbourne, un santone freak) e basso propulsivo (Jared Warren: se chiede di uscire con vostra figlia, per amor di dio, negateglielo!) a creare il caos in terra. I volumi sono assordanti. I fans scatenati. Pogo, gomitate, ed headbanging a tutto andare.
Quando la chitarra affila la sua lama, le batterie ti scombussolano i neuroni e il basso va dritto allo stomaco, non puoi stare fermo. E così è per tutti e 200 gli spettatori, dalla prima all'ultima fila. La prima mezz'ora è un volo d'uccello sui bellissimi, ma purtroppo sottovalutati, "Pigs of the Roman Empire", "(A) Senile Animal" e "The Bride Screamed Murder". La contaminazione è il primo segno distintivo: si ha la netta sensazione che il tribalismo/tropicalismo del drumming sia perfettamente congeniale agli stop and go di natura doom/noise della chitarra. Non una cosa di tutti i giorni, insomma. Ma i Melvins ci hanno sempre abituato a questo strano sentire e per loro le cose sembrano e sono facili. Si passa dall'heavy rock settantiano al doom, dal noise a territori vicino all'hardcore, dalla furia punk al rock col ritornello facile, anche nell'arco di una canzone sola! Straordinari. La cosa migliore è la complicità dei due batteristi: all'unisono generano un tankard furioso e subito si capisce perché ce ne siano due; poi, lentamente, le cose cambiano in corso. Un piatto allungato, un campanaccio, una rullata leggermente spostata realizzano un mood unico. Si potrebbe tranquillamente rimanere ad ascoltare solo loro due. E questo succede proprio a ridosso della prima ora di concerto: drums solo per dieci minuti, con Buzz e Trevor che abbandonano il palco per lasciarci concentrati sulle percussioni. Magistrali.
Al rientro ecco una sfilza di classici: "Spread Eagle Beagle", "Ligature", "The Bit" ed è il trionfo. Tutti cantano. Tutti ballano. Tutto è perfetto. La summa della musica heavy in ogni sua possibile declinazione. Non un passo falso, solo elegia Melvins. Una lunghissima trance psychedelica chiude il cerchio un'ora e mezzo dopo l'inizio del live. Neanche un bis. È stato raggiunto l'apogeo, non si può andare oltre. Buonanotte a tutti. Burt Bacharach, in sottofondo verso l'uscita, sottolinea come i contrasti, anche frontali, soprattutto feroci, siano l'essenza della vita. Viva i Melvins che hanno fatto dello scontro il loro stile musicale, la propria cifra stilistica e la loro ragione di vita.


Eugenio Di Giacomantonio

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