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Voto
01. Foxes & Fruits
02. New Sonic Dreamers
03. Karimba Ramba
04. Friend Sheep
05. The Present
06. My Sweet Deafness
07. Muddle
08. Robin in Da Hood
09. The Treatment
10. Azathot

New Sonic Records
2012
Website

SOUL OF THE CAVE - "The Treatment"

I Soul of the Cave si presentano in maniera molto professionale con un bel dischetto digipack, edito dalla New Sonic Records, corredato con un bel librettino di testi. Il loro vocabolario espressivo nasce dal'incrocio tra gli automatismi del paesaggio urbano e l'esplorazione del proprio intimo: il trattamento che ci propongono è quello di esplosione dei propri impulsi primordiali con un grido di rabbia. Profondità Smashing Pumpkins applicata al male di vivere Placebo, potremmo ipotizzare. E non si va tanto lontano da due queste band soprattutto nei primi tre pezzi dove si sente più di qualche eco indie/post. In aggiunta non c'è snobismo verso una concezione del rock in maniera pop (come lo si poteva intendere nei primi anni Novanta) e questo è un punto a loro favore in quanto denota una certa apertura mentale e una possibilità di attraversare la barriera degli aficionados.
"Friend Sheep" (titolo capolavoro!) è una bella mazzata che si contamina col Karate sound ed articolazioni da June of 44 velocizzati, a far da contrasto con l'introspettiva "The Present", riflessione agrodolce sulla propria esistenza. "My Sweet Deafness" sorprende con un ritmo sghembo e un fraseggio di chitarra trance/orientaleggiante dove Giovanni incastra laceranti sfoghi vocali in maniera esemplare. La successiva "Muddle" è la cosa meglio riuscita dell'intero lotto: un pezzo semi strumentale (eccezione fatta per il recitato a metà brano) che parte desertico, si arrampica verso altopiani spaziali e si deposita nella galassia Pelican/Isis. Il tutto decorato con synth ed effettistica vintage, tenuti a sorveglianza dei vari rallentamenti ed accelerazioni che riescono a creare un mini trip mentale. E qui che si dovrebbe affondare il colpo per le esplorazioni compositive che verrano. "Robin in Da Hood" (altro titolo notevole!) riprende il discorso appena interrotto e spiana la strada per la title track, altro brano sul mood post rock. Il finale di "Azathot" ingrossa i volumi con un riff crossover che gioca a contrasto con arpeggi delicati e la ghost track ("Scream") mantiene quello che il titolo promette.
La dedizione e la passione sono evidenti così come la professionalità messa in gioco (David Lenci del RedHouse è coinvolto in un episodio e John Golden si è occupato del mastering oltreoceano). Ora, per fare il disco perfetto, bisognerebbe togliere qualche ripetizione di troppo e sondare strade adiacenti a quella intrapresa. I ragazzi sono svegli e noi siamo pronti per una gradevole sorpresa.



Eugenio Di Giacomantonio

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